I quartieri popolari: riflettere sul disagio abitativo

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I quartieri popolari: riflettere sul disagio abitativo

Edilizia popolare: disagio sociale mai risolto. Come gestire la progettazione insieme ai futuri abitanti.

Un divario culturale 

Il disagio abitativo è un fenomeno con il quale spesso i servizi sociali si trovano a lavorare. Esso ha radici profonde ed è il frutto di un divario culturale tra i progettisti e le persone destinatarie degli alloggi popolari. Il senso del gusto e  la visione della casa cambiano con il cambiare della classe sociale. 

 «Per il progettista la valutazione del costruito avviene in termini funzionali, per gli abitanti degli alloggi popolari in termini relazionali» 

L’estraneità culturale 

Nelle grandi città italiane riconosciamo tre tipi di insediamento residenziale: 

  1. I quartieri suburbani per abitanti di reddito medio, medio-alto e alto; 
  1. I quartieri “spontanei” o “abusivi” con tipologie di edilizia destinate ad abitanti dalle variegate fasce di reddito; 
  1. I quartieri di edilizia sociale, finanziati con denaro pubblico e concessi a condizioni agevolate ad un’utenza che è sempre popolare: operai, artigiani, piccola borghesia e sottoproletariato.  

Ad ogni tipologia di abitazione riscontriamo un differente rapporto tra abitanti e progettisti:  

  • nel primo caso progettisti ed abitanti appartengono, approssimativamente, alla stessa classe sociale e al medesimo ambiente culturale; 
  • nel secondo caso gli abitanti sono i progettisti di se stessi;  
  • nel terzo caso vi è una distanza considerevole tra progettisti ed abitanti.  

Il fatto che i futuri abitanti non esercitino alcuna influenza sulla progettazione rafforza l’idea dell’estraneità culturale. Nel momento in cui l’abitante entra in quella che sarà la sua casa, si trova di fronte una cultura che non è la sua.  

Le pratiche abitative nel tempo  

In Italia, i quartieri di edilizia popolare rappresentano un disagio sociale mai risolto. Nel dopoguerra negli anni ’50 e ’60, la costruzione di case popolari serviva a fornire alloggio ad alcune categorie: chi ha perso casa durante la guerra; chi non aveva alloggi sicuri; chi emigrava dalla campagna.  

Fu subito chiaro che fornire un alloggio a chi ne fosse sprovvisto non era sufficiente: appena i nuovi residenti si insediavano nei nuovi alloggi, si manifestava un malessere sociale diffuso. Parliamo di tre tipi di comportamenti: 

  1. Alterazione della pianta dell’alloggio e modificazione delle destinazioni d’uso; 
  1.  Incuria da parte degli adulti e aggressioni vandaliche da parte dei giovani per le parti comuni degli stabili e del quartiere; 
  1. Comportamenti illegali come il mancato pagamento dell’affitto. 

Questi comportamenti erano interpretati come indicatori di “arretratezza” sociale e culturale.  

Centri sociali di quartiere 

Gli enti pubblici si dotarono di una struttura di servizio sociale molto capillare, articolata per centri sociali di quartiere. L’obiettivo era aiutare gli abitanti ad adattarsi alle nuove residenze, utilizzando tecniche di servizio sociale di comunità.   Questi servizi risultarono però inefficaci e presto se ne capì il motivo. 

Tra gli anni ’60 e ’70 apparve chiaro che nelle grandi agglomerazioni popolari c’era qualcosa di strutturalmente disfunzionale.  

Un caso emblematico è il quartiere Scampia di Secondigliano (Napoli), noto come “Vele”. Gli abitanti hanno chiesto formalmente all'Amministrazione comunale la sua demolizione, sostenendo che «la gente non deve essere più considerata un accessorio dei progetti urbanistici».[1]   

Spazio funzionale e spazio relazionale  

Villani scrive: «Si deve riconoscere che in generale si conosce molto poco delle aspirazioni della gente per i diversi tipi e standards di abitazioni».[2] Tuttavia, anche cercando di coinvolgere le persone nella progettazione, i risultati sono stati deludenti: spesso non riescono ad articolare le proprie richieste, si limitano a rivendicare l’ampliamento di quello che già hanno o sono condizionate dai modelli proposti dai mass media. E’ giusto allora parlare di una «partecipazione tradita» come recita il titolo di un lavoro dei tardi anni ’70?[3]  

Risulta semplice liquidare la questione dando colpa all’ignoranza o al cattivo gusto. L’ipotesi che sosteniamo è un’altra. Le radici culturali dei progettisti e quelle di queste persone sono diverse : si tratta di due modi radicalmente diversi di concepire e valutare la casa, il quartiere, lo spazio e forse il mondo.  

Per il progettista lo spazio è razionalmente divisibile e geometricamente configurabile, per gli abitanti è una dimensione esistenziale dove si creano relazioni.

Articoli di

Concetta Terrazzano

Se sei interessato a raccontare la tua esperienza o le tue riflessioni di assistente sociale siamo lieti di pubblicare un tuo articolo sul nostro blog. Per maggiori informazioni contatta la dott.ssa Serena Vitale (redazioneblog@progettofamiglia.org)
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