Smart welfare: valore aggiunto, digitalizzazione e futuro. Attenzione autentica e avvolgente. E-welfare dal volto umano.
Un’idea smart
Leggendo articoli e saggi, ascoltando dibattiti televisivi e programmi radiofonici ci si imbatte spesso nell’idea che “smart” sia sinonimo di efficienza e di evoluzione. Allora si sente parlare di smart society, di smart city o di smart welfare. Una caratteristica che sembra essere la soluzione di tutti i mali.
«L’uomo deve tornare a essere considerato il limite invalicabile»
Smart sinonimo di…
Smart è un termine che da tempo fa parte del nostro lessico e che con la pandemia è diventato di uso comune. Di norma se lo si utilizza per descrivere una persona si vuol esaltare le sue capacità intellettive e le sue abilità di risposta agli stimoli esterni. Se accompagna il termine società si celebra la capacità della stessa di adattarsi ai cambiamenti nonché la sua abilità di innovarsi attraverso un uso intelligente della tecnologia.
Quando affianca il vocabolo città denota un contesto in cui la digitalizzazione è protagonista indiscussa dell’evoluzione urbana. Essa permette di rendere efficiente la Pubblica Amministrazione; consente la partecipazione attiva e reale di ogni cittadino alla vita pubblica; garantisce maggiori livelli di comfort e benessere grazie ad un efficientamento del welfare, della sicurezza, della mobilità e del trasporto pubblico. La ricerca e l’innovazione, che dovrebbero caratterizzare questa città, consentirebbero un aumento della produttività e dell’occupazione e unosviluppo sostenibile perché a basso impatto ambientale ed efficiente sotto l’aspetto energetico[1].
Lo smartwelfare è il lavoro svolto tipicamente da un operatore sociale nell’ambito dei servizi alla persona in modalità telematica. I colloqui, gli interventi e le visite domiciliari, i percorsi di accompagnamento, di sostegno, di controllo e di monitoraggio vengono esplicati in Rete[2].
Semplici riflessioni…
Va da sé che questo è il futuro. Nessuno può sottrarsi al fascino impietoso e seduttivo della rivoluzione digitale e tecnologica. Nessuno può negare i vantaggi che essa ha apportato nella vita di tutti. Basti pensare alla teleassistenza, alla telemedicina, al superamento dei vincoli spazio-temporali…
L’eccessivo clamore e la particolare enfasi, che vengono attribuiti a tale fenomeno, non possono esimere i professionisti dell’aiuto dal porsi delle domande. L’efficienza, che dovrebbe scaturire dalla digitalizzazione del welfare, è sinonimo di qualità dei servizi?
La modalità smart è dunque, un valore aggiunto per il welfare?
I dubbi derivano dalla convinzione che ogni qualvolta si parla di servizi alla persona non si può fare a meno di pensarli come “beni relazionali” la cui qualità, dipende, soprattutto, dalla capacità dell’operatore di entrare in relazione con l’altro[3].
Relazione e byte
Qualsiasi piattaforma o dispositivo si utilizzi non può certo soppiantare del tutto l’incontro, il colloquio, l’accompagnamento in presenza. Qualsiasi contesto virtuale non può ricreare le condizioni ideali per costruire una relazione realmente dialogica poiché vengono a mancare molti aspetti della comunicazione paraverbale e non verbale che, come affermato da Albert Mehrabian nel lontano 1972, rappresentano il 93% dell’atto comunicativo[4].
Comunicare, secondo Robert Carkhuff, vuol dire “prestare attenzione” ovvero essere disposto ad andare incontro all’altro anche da un punto di vista fisico[5]. Un abbraccio, una pacca sulla schiena, la giusta postura, il faccia a faccia, il contatto oculare possono essere modi cruciali per dimostrare e per manifestare l’attenzione autentica e “avvolgente” verso chi chiede aiuto[6]. Va da sé che tutto ciò appare alquanto difficile da ricreare in una dimensione virtuale mediata da uno schermo.
Qual è la sfida?
Non possiamo demonizzare la tecnologia. L’umanità è in rete, il cyberspazio è una dimensione reale del vivere odierno. Nessuno vuole rinunciare ai benefici che la Rete permette. Ignorarli è controproducente. La sfida che bisognerebbe proporsi come operatori sociali potrebbe essere quella di contribuire a creare un e-welfare dal volto umano perché costruito avendo come fine e misura la dignità della persona e della comunità umana.
L’uomo deve tornare a essere considerato il limite invalicabile. La sua libertàdeve essere intesa come il principio basilare sul quale costruire un processo di aiuto che abbia come unico obiettivo: dare compimento al divenire della persona in qualità di destinataria dei servizi sia che essi siano distribuiti e gestiti in rete che in presenza.
Note:
[1] Cfr. in https://www.economyup.it/mobilita/smart-city-cosa-sono-davvero-e-a-che-punto-siamo-in-italia/
[2] Cfr. Andrea Petrella, Distanti ma connessi? Lo smart welfare nei servizi socio-educativi ai tempi del Coronavirus, in “Encyclopaideia – Journal of Phenomenology and Education”, Vol.24 n.57, 2020, p. 60.
[3] Cfr. Stefano Zamagni, L’economia del bene comune, Città nuova, Roma, 2008, p. 44.
[4] Cfr. Albert Mehrabian, Nonverbal communication, Aldine-Atherton, Chicago, 1972.
[5] Cfr. Robert Carkhuff, L’arte di aiutare, Erickson, Trento, 1988, p. 17.
Assistente Sociale specialista. Docente a contratto presso la LUMSA sez. EDAS TARANTO. Insegna “Storia e Principi del Servizio sociale” nel corso di laurea triennale di Servizio Sociale. Membro tecnico della Commissione deontologica nazionale. Autrice di monografie ed articoli scientifici. Counsellor ad orientamento umanistico-esistenziale. Formatrice presso enti pubblici e privati.
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