Progettualità, comunità e rete: l’intervista ad una giovane assistente sociale

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Progettualità, comunità e rete: l’intervista ad una giovane assistente sociale

La professione dell’assistente sociale in relazione all’affido: emozioni, timori ed obiettivi. L’intervista alla Dott.ssa Anna Andretti.

Un progetto di rete

L’affidamento familiare è un percorso che ha come unico scopo quello di tutelare il benessere di quei minori momentaneamente allontanati dalla loro famiglia. L’obiettivo principale è far sì che questi ragazzi non avvertano la sensazione dell’abbandono e che, al contrario, apprendano appieno il significato della parola “legame”.

Il Centro Studi della Federazione “Progetto Famiglia” si occupa proprio di questo: innumerevoli sono le iniziative che propone, tutte seguite e accompagnate da un’équipe multidisciplinare che unisce la “nuova e vecchia” scuola della professione sociale. Proponiamo quest’oggi un’intervista effettuata ad una giovanissima e brillante assistente sociale, parte integrante dei progetti fino ad ora realizzati.

<<L’affido familiare non tutela solo il bambino, tutela anche la sua famiglia>>

L’approccio

L’esperienza dell’affido è un mondo fatto di tante sfumature, ma soprattutto di storie. Com’è stato per una giovane assistente sociale approcciarsi a questo percorso?

È emozionante entrare a far parte di questo mondo, già dal primo colloquio: si ascoltano le loro storie, si comprendono le motivazioni alla base della loro scelta…ed è proprio qui che inizia il percorso.

Ad ogni famiglia viene spiegato cos’è l’affidamento e, soprattutto, si prova a capire se conoscono la differenza tra questo e l’adozione: ciò è importante per meglio comprendere quale sia il sentiero più indicato da seguire. Altro step importante è capire se sussistono o meno esperienze pregresse e se hanno seguito corsi di formazione e preparazione. I colloqui introduttivi sono inizialmente organizzati ogni quindici giorni, successivamente una volta al mese. Si fa tanto insieme a queste famiglie e ai ragazzi che sono coinvolti: mettiamo in atto attività di volontariato proprio per creare quel processo di socializzazione propedeutico all’instaurazione di un legame.

Abbiamo creato una rete di supporto con le famiglie e per le famiglie. È proprio questa la novità: il rendere manifesto che non si affronta tutto da soli, che si è supportati in qualsiasi momento. Ci si prende cura di questi ragazzi con la consapevolezza che vi sarà per loro un rientro in famiglia.

Il timore del distacco

In situazioni come queste sappiamo bene che non ci sono solo sentimenti di gioia e spensieratezza, ma anche interrogativi e preoccupazioni. Quali sono i timori principali delle famiglie che partecipano all’iniziativa e cosa fate voi per rassicurarle?

Molte famiglie hanno il timore del concetto di “temporaneità”, sono spaventate dal successivo distacco. Noi cerchiamo, anche in questo caso, di rendere chiaro il fatto che loro non sono mai soli. Neanche durante le difficoltà. Ci siamo all’inizio, durante e alla fine del percorso.  Il rientro in famiglia di origine non ostacolerà il legame che si è creato, bensì perdurerà nel tempo. Indispensabile è “auscultare il cuore”; è comprendere e accettare che non si sta sostenendo solo il ragazzo, ma anche l’intera sua famiglia.

Il carico emotivo

Far parte di un percorso così delicato sollecita sempre una parte sensibile che, nella professione, va ridimensionata: quella del carico emotivo. Quali sono le emozioni che entrano in gioco e come le si affrontano?

La prima è quella dell’entusiasmo. Sono state create tante cose nuove, siamo diventati una bella rete e alimentiamo l’idea dell’essere uniti. Il concetto stesso di presenza, di supporto, ci fa sentire parte integrante di un disegno più ampio.

Nonostante io sia molto sensibile, cerco di controllare le mie emozioni mantenendo comunque un approccio empatico. Quando percepisco l’imbarazzo dei silenzi cerco di smorzare la tensione con qualche parolina rassicurante, senza venir meno alla mia professionalità…o almeno ci provo! Inizialmente temevo di non essere all’altezza, di non riuscire “a leggere” le persone o comprendere i loro bisogni. Avevo paura di non poter raggiungere gli obiettivi prefissati. Alla fine devo dire che, nonostante stia ancora imparando, cerco di fare quanta più attenzione possibile alle domande da porre e alle risposte da dare. Cresciamo tutti e lo facciamo insieme.

Una rete solida

Sicuramente per fronteggiare quest’esperienza avrà dovuto fare leva su quelle che sono le sue life skills. Quali sono i suoi punti di forza? E quali quelli del progetto?

Il mio punto di forza è quello di saper ascoltare con pazienza ed interesse anche chi impiega un po’ più di tempo per aprirsi. Nonostante le paure, cerco sempre di tirar fuori il meglio di me. Il punto di forza del progetto, invece, è quello d’aver cucito una solida rete di supporto; una rete fatta dalle famiglie e per le famiglie, pronta a sostenersi anche nelle difficoltà. Soprattutto in queste. Si sono creati veri e propri legami, ci si frequenta anche al di fuori degli incontri programmati. Vedere in cosa si evolve tutto questo è ciò che ti spinge a continuare.

Altruismo puro

Se si trovasse di fronte a qualcuno che è curioso di intraprendere questo percorso, o un collega alle prime armi che si approccia a questa esperienza, cosa consiglierebbe?

L’affido è sicuramente un percorso che arricchisce, sia dal punto professionale che personale. È altruismo puro. Avere l’obiettivo di incentivare il benessere del bambino e della sua famiglia, per poi vedere il loro “ricongiungersi”, è entusiasmante. La gioia di vedere che tutto si conclude nel migliore dei modi ti rende ricco e ti fa sentire parte integrante di un qualcosa di prezioso. Le belle emozioni sono tante, la solidarietà ci rende parte attiva della comunità.

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