Ragazzi out-of-home – Parte I

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Ragazzi out-of-home – Parte I

Percorsi sperimentali di affiancamento e affidamento familiare per adolescenti “fuori famiglia”. Bisogno di accoglienza e incontri a bassa soglia.

Obiettivi, azioni e presupposti teorici

Il progetto sperimentale “Bong Building for Teens”, letteralmente “costruzione di legami per i teenager, si propone di rilanciare l’affiancamento e l’affidamento familiare degli adolescenti “fuori famiglia”. Si tratta di un percorso che trova supporto del Dipartimento per le Politiche Familiari della Presidenza del Consiglio dei ministri e che ha luogo in 8 diverse province del Centro Sud Italia e precisamente: Roma, Frosinone, Isernia, Napoli, Salerno, Benevento, Bari, Catania.

«La solidarietà scatta spontanea dopo l’attivazione di una connessione emotiva tra le persone.»

Bisogno e difficoltà di reperimento degli affidatari

La maggioranza dei minorenni attualmente ospiti delle comunità residenziali italiane sono adolescenti (15-17 anni) o preadolescenti (11-14 anni). Si tratta di oltre 7mila ragazzi, pari a quasi il 60% del totale dei minorenni “out-of-home”.[1]

Gran parte di questi “giovanissimi” è parzialmente priva di riferimenti familiari e parentali adeguati. Molti ne sono completamente privi. Pur in assenza di precisi dati quantitativi, possiamo affermare che una quota importante sia degli uni che degli altri avrebbe giovamento se potesse beneficiare dell’inserimento in una famiglia affidataria.

Purtroppo, la più che trentennale esperienza di promozione dell’affidamento familiare maturata nel contesto italiano, ha dimostrato la difficoltà di individuazione di adulti e famiglie disponibili e pronti ad accogliere adolescenti. Gran parte degli aspiranti affidatari si orienta verso fasce d’età più basse, comprensibilmente intimoriti dalle “maggiori complessità” di cui i ragazzi possono essere portatori.

Si tratta di complessità segnalate anche dalla Linee di indirizzo nazionali per l’affidamento familiare varate nel 2012 dalla Conferenza Unificata Stato, Regioni, Autonomie locali. Tant’è che al punto 224 delle Linee di Indirizzo si chiede ai Servizi sociali il ricorso a specifiche misure per «sostenere le particolari situazioni che si possono determinare» nell’affidamento di adolescenti e preadolescenti.[2]

La via della “sensibilizzazione esperienziale”

Considerato il bisogno di accoglienza familiare appena descritto, viene da chiedersi: cosa può spingere ulteriori persone e famiglie ad aprire le porte di casa e del cuore all’accoglienza degli adolescenti? Cosa può motivare le famiglie a compiere questo passo?

Da numerose e diversificate esperienze, emerge che spesso l’incontro tra affidatari e ragazzi è avvenuto prima che emergesse la proposta di accoglierli. Si tratta cioè di incontri avvenuti nelle situazioni più disparate, prima che si parlasse di affido: ad esempio alcuni adulti hanno fatto volontariato nelle comunità che accolgono questi ragazzi; altre volte l’incontro avviene perché gli adulti sono genitori dei compagni di classe (o dei compagni di sport, di attività…) di questi ragazzi; altre volte gli incontri sono avvenuti in occasione di attività di socializzazione di quartiere; etc. Definiamo questi incontri “a bassa soglia” di accesso. Si tratta cioè di interazioni semplici, leggere, non caricate di impegni o ipotesi di accoglienza.

L’esperienza concreta dimostra che questi incontri spesso fanno scattare una spontanea e naturale simpatia tra gli adulti e i ragazzi che facilmente si sviluppa, poi, in una frequentazione part-time (per una passeggiata, una pizza, i compiti scolastici pomeridiani…). Non di rado, poi, la relazione si approfondisce fino a divenire un vero e proprio legame che, a volte, crea le condizioni di conoscenza e di sensibilità che fanno maturare – sia negli adulti che nei ragazzi – la scelta dell’affidamento.

Queste esperienze trovano conferma in alcune ricerche e pubblicazioni sulla “motivazione degli affidatari” che evidenziano che l’attivazione della disponibilità ad accogliere un minorenne è nella gran parte dei casi connessa all’aver fatto previamente esperienza di “incontri” significativi. Ad esempio una ricerca condotta da De Maeyer e altri evidenzia che l’86% degli affidatari, prima di aprirsi all’accoglienza, aveva già conosciuto quei minorenni.[3] Da citare anche le ricerche di McMillan e Chavis i quali, in un articolo sulla “teoria del senso di comunità”, sottolineano, con dati alla mano, che la solidarietà scatta spontanea dopo l’attivazione di una connessione emotiva, e dunque di una conoscenza pervia e significativa, tra le persone.[4]

 


Note:

[1] Si tratta di 7.271 minorenni tra gli 11 e i 17 anni, pari al 56,4% del totale dei minorenni inseriti in comunità residenziale. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Bambini e ragazzi in affidamento familiare e nei servizi residenziali per minorenni, in Quaderni della ricerca sociale (46)2020, in www.lavoro.gov.

[2] Conferenza Unificata, Linee di indirizzo per l’affidamento familiare, 2012, Roma, 224.c.

[3] Secondo De Maeyer e altri sono l’86,4% gli affidatari che hanno conosciuto il minore prima di accoglierlo. De Maeyer, Vanderfaeillie, Vanschoonlandt, Robberechts, Van Holen (2014), Motivation for Foster Care, Children and Youth Services Review, 36, 143-149.

[4] McMillan, Chavis (1986), Sense of community: a definition and theory, Journal of Community Psychology, 14, 6-22.


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