Neonati nel cassonetto o lanciati dai balconi. La solitudine che uccide
Infanticidi, solitudine e disperazione. Desertificazione sociale e sfiducia. Ruolo delle istituzioni, mappa delle solitudini e centri relazionali.
Un infanticidio al mese
Ragusa, 5 novembre 2020: un neonato viene ritrovato in un cassonetto, miracolosamente vivo. Il giorno dopo, a Trapani, una 17enne uccide il figlio appena nato lanciandolo dal balcone. I due episodi siciliani sono solo gli ultimi di una nera scia che attraversa tutto lo Stivale. Secondo i dati del Rapporto Eures[1] negli ultimi 4 anni in Italia sono stati 42 i bambini con meno di 5 anni assassinati dai genitori. Quasi uno al mese.
«Una solitudine che genera sentimenti di totale disperazione, che spingono a gesti estremi»
Solitudine e disperazione
Ciascuna di queste macabre vicende ha le sue circostanze particolari. Ognuno di questi genitori figlicidi ha la sua storia, le sue crisi, i suoi lati bui. Non possiamo però non provare ad interrogarci sulle “cause comuni” di un dramma di così oscuro e sulle risposte che occorre mettere in campo.
Ignoranza? Carenze economiche? No, il fenomeno si presenta trasversale alle diverse classi sociali. Un dato però emerge con assoluta costanza: la solitudine in cui si consumano questi drammi. Padri, madri, famiglie sole di fronte alle mille criticità di una quotidianità che – proprio perché isolata – si presenta insostenibile, schiacciante.
Una solitudine che genera sentimenti di totale disperazione, che spingono a gesti estremi, specie in una società nella quale la realizzazione personale è pensata e perseguita sempre più come affermazione dell’io e la sovrabbondanza di stimoli e risposte consumistiche lascia l’uomo impreparato di fronte alla sofferenza e al sacrificio.
Dove sono i Servizi Sociali e istituzioni?
«Avevo paura di dire ai miei genitori che ero incinta». Ha affermato la giovane madre trapanese. Dov’erano – ci chiediamo – il padre del bambino, i parenti e gli amici di entrambi, i vicini di casa? Dov’erano le istituzioni territoriali, dalla scuola (la ragazza era ancora nell’età dell’obbligo scolastico) al medico di famiglia, ai Servizi Sociali? Dove la parrocchia, le associazioni e le varie realtà di quartiere? Dov’erano gli stessi genitori della ragazza, così distratti e lontani da non accorgersi della gravidanza della figlia?
Certo, non si può fare di tutta l’erba un fascio né vanno lanciate accuse generiche e superficiali. Ma occorre seriamente interrogarci sulla galoppante desertificazione delle relazioni sociali e sull’assenza, quasi totale, di strategie e percorsi che favoriscano la vicinanza tra le persone.
I dati Istat ci dicono che ogni dieci italiani uno è anziano e solo. Che ogni dieci famiglie italiane con figli, due sono monogenitoriali, cioè formate da un solo genitore (che cresce da solo uno o più figli). Che i tassi di fiducia tra le persone sono ai minimi storici (quattro italiani su cinque dichiarano che occorre “stare molto attenti” nei confronti del prossimo). Che negli ultimi trent’anni si è quasi dimezzato il numero di nuclei familiari che ricevono aiuti dai vicini.
Di fronte a tutto questo ci chiediamo: se i responsabili delle istituzioni hanno la “mappa delle solitudini” del loro territorio? Quali sono i “centri relazionali” intorno ai quali riattivare la prossimità tra le persone? Quali le concrete iniziative per favorire l’incontro, la condivisione, la solidarietà tra gli individui? Fino a quando i condomini, il vicinato, le classi scolastiche, gli uffici e tutti gli altri contesti nei quali le persone si trovano a “vivere vicine” saranno lasciati a sé stessi, abbandonati al caso o, peggio, ai conflitti?
Assistente sociale, presidente nazionale della Federazione Progetto Famiglia, Docente di Principi e Fondamenti del Servizio Sociale presso le Università “Federico II” di Napoli e “Aldo Moro” di Bari, Docente di Metodi e Tecniche del Servizio Sociale presso le Università della Calabria e dell’Aquila.
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