Come incontrare l’altro nella storia: immigrazione, etnocentrismo e servizio sociale

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Come incontrare l’altro nella storia: immigrazione, etnocentrismo e servizio sociale

Immigrazione e riflessività: come adoperare criticamente i modelli e le categorie teoriche di riferimento. Etnocentrismo critico, ascolto e autorappresentazione.

Noi e loro. Il difficile traguardo dell’integrazione sociale 

L’incontro con umanità aliene alla nostra storia culturale, da problema etno-antropologico diviene un decisivo problema sociale quando l’Italia è investita dai primi flussi migratori, che colgono impreparati i decisori politici e gli operatori sociali. Come predisporsi ad accogliere queste umanità nel nostro spazio umano e sociale? La scienza antropologica di Ernesto de Martino fornisce preziosi costrutti teorici utilizzabili e adattabili anche alla pratica di servizio sociale. Predisporre spazi di ascolto e accoglienza basati sulla reciprocità e segnare la differenza tra assorbire – quale atto di assimilazione unilaterale – e includere, ovvero portare dentro, immettere l’altro nel proprio in un movimento di reciproca e simultanea integrazione. 

«Gli operatori sociali sono chiamati a misurarsi non con una pedagogia della carità ma con una pedagogia della civiltà che rivendica spazi di dialogo e di inclusione non marginali» 

La narrazione dell’alterità come dialogo interno 

Nella storia degli studi antropologici ed etnografici la narrazione dell’alterità è stata sin dalle origini, e per lungo tempo, appannaggio di una scienza maturata in Occidente e per l’Occidente, ovverosia una diagnosi dell’umanamente più distante mediata dalle categorie, culturali e scientifiche, maturate nell’ambito di un sapere poco incline ad assumere al suo interno la prospettiva del soggetto-oggetto di studio che restava, pertanto, sullo sfondo di un dibattito impegnato in una traduzione univoca ed etnocentrica dell’alterità.  

L’incontro con l’umanamente più distante, successivamente, da problema interno al dibattito scientifico diviene un imponente problema sociale quando, a partire dagli anni Settanta del Novecento, l’Italia diventa una terra d’immigrazione. Un problema reale e tangibile che è arrivato a investire le nostre declinazioni più intime, la maniera privata e pubblica di pensare all’altro da noi, l’altro che fa irruzione nel domestico e che costringe a confrontarsi con i retaggi culturali più radicati.  

Vagliare criticamente le proprie categorie interpretative 

L’esigenza di ripensare alle dinamiche concrete dell’incontro con le comunità migranti deriva, dunque, dalla consapevolezza di una emergenza storica che ci convoca come uomini, come professionisti e come cittadini.  

Il tema dell’incontro è stato investigato in maniera particolarmente ricercata dall’antropologo ed etnologo Ernesto De Martino, che ha tematizzato la nozione di etnocentrismo critico. Il costrutto demartiniano non interessa in via esclusiva i problemi di metodo della ricerca etnografica, bensì si offre come parametro interpretativo capace di guidare anche l’azione dell’operatore sociale.  

De Martino rintraccia lucidamente la qualità essenziale dell’incontro con umanità aliene, vale a dire il disagio della reciproca incomprensione dato dalla «estrema indigenza di memorie comuni »1 e dal «tremendo reciproco pregiudizio»2. Lo sbigottimento iniziale, per lo scienziato o operatore sociale, non può risolversi nel tentativo di tradurre quelle umanità cifrate in un linguaggio immediatamente comprensibile e rassicurante, senza lo sforzo, dunque, di investigare le stesse categorie che ci attrezzano nella lettura di ciò che ci è alieno.  

L’etnocentrismo critico demartiniano ci indica la possibilità di un impiego critico, costantemente sorvegliato, delle categorie interpretative – e dunque dei modelli - guadagnati attraverso la nostra storia culturale e i nostri riferimenti scientifici. Il paradosso che si genera nell’incontro etnografico è difatti il seguente: rinunciare completamente alle nostre categorie interpretative, – impartecipi, difatti, della storia culturale aliena – vorrebbe dire non avere strumenti per leggere e interpretare la realtà; farne uso in maniera indiscriminata e inconsapevole, invece, rischia di depotenziare la vitalità dell’incontro, fino alle stigmatizzazioni più pericolose. 

L’ascolto attivo e il patto di reciproca accoglienza 

L’uso di categorie univoche e onnicomprensive – si pensi a titolo di esempio alla nozione di “immigrato” – che comprimono la complessità del soggetto e della realtà all’interno della quale è inserito, fondano, difatti, una reciprocità basata sull’assenza e sull’invisibilità dell’altro.  

L’invisibilità del soggetto è data proprio dalla costruzione aprioristica delle definizioni che lo traducono per noi e che mediano l’unicità della persona, e della sua storia, ridefinendola in termini passivi e oggettivanti. L’altro si fa visibile, invece, se gli viene concessa un’emersione all’interno dei significati costituiti, significati suscettibili di essere corrotti, ridefiniti e ampliati. L’assenza è dunque una costruzione, una sovrastruttura di significati slegati dall’esperienza; la presenza è una relazione, un patto di reciproca accoglienza.  

L’assistente sociale – che fonda la sua professionalità sui valori deontologici dell’autoderminazione e dell’unicità della persona umana – è, allora, la figura professionale che più di altre può strutturare e implementare delle pratiche operative fondate sull’ascolto attivo delle umanità straniere, che domandano un posto nella nostra storia.  

Lo strumento del colloquio professionale può divenire lo spazio entro il quale sperimentare tecniche di autorappresentazione, che consentano alla persona straniera di pronunciare in prima persona il proprio discorso umano, tentando una ricostruzione attiva del progetto migratorio e, dunque, dell’identità e della memoria.   

Un colloquio con la persona straniera, spesso non attrezzata linguisticamente, dovrebbe avere come centro di sviluppo il tentativo di autorappresentazione del soggetto: gli abbozzi di frase e di discorso e le prime parole guadagnate in una lingua straniera sono, dunque, la materia prima per consentire alla persona - plasmata e smussata dalle definizioni che riceve dall’esterno – di ridefinire personalmente il sentimento del sé, la propria immagine sociale e la complessa storia migratoria che lo riguarda.  

L’autorappresentazione come metodo 

L’autorappresentazione va intesa dunque sia come bisogno primario ineludibile, sia come dovere essenziale di chi si attrezza per renderla praticabile e riceverla nella sua interezza. Le griglie interpretative di cui usufruiamo – pur se indispensabili e scientificamente valide – devono accettare la sfida di una loro possibile corruzione e ridefinizione, al fine di includere la prospettiva delle umanità aliene che ci stanno innanzi.  

Occorre, dunque, organizzare spazi per un ascolto radicale ed essere disposti a coglierne tutte le implicazioni possibili. La professione di assistente sociale è una sfida costante per costruire percorsi alternativi di integrazione e benessere sociale; tale sfida quotidiana deve necessariamente investire anche il nostro sapere scientifico e professionale: l’incontro con umanità aliene mette alla prova i nostri modelli teorici di riferimento e stimola l’apertura delle nostre griglie interpretative, al fine di includere il registro di segni e simboli di cui l’altro è portatore.  

L’operatore etnocentrico fa uso di un sapere depositario, l’operatore riflessivo media il proprio sapere nello spazio dell’incontro, consapevole che lo sforzo di comprensione deve investire contemporaneamente il sé stesso osservante e l’altro osservato.

Se sei interessato a raccontare la tua esperienza o le tue riflessioni di assistente sociale siamo lieti di pubblicare un tuo articolo sul nostro blog. Per maggiori informazioni contatta la dott.ssa Serena Vitale (redazioneblog@progettofamiglia.org)
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