L’affidamento familiare in Sardegna: dalla tradizione indicazioni metodologiche per rilanciarlo

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L’affidamento familiare in Sardegna: dalla tradizione indicazioni metodologiche per rilanciarlo

L’affidamento familiare in Sardegna come forma di genitorialità sociale che arriva dalla tradizione.Quando l’affido diventa intervento residuale e tardivo. Le condizioni indispensabili per garantire processi di co-genitorialità. Il lavoro sociale di comunità: metodologia per un ricorso all’affido nella sua valenza preventiva.

Fill’e anima, le radici dell’affidamento familiare in Sardegna 

Fillus de anima – letteralmente “figlio dell’anima” – è un’espressione della lingua sarda che sta ad indicare una pratica piuttosto diffusa in Sardegna che consiste nell’affidare spontaneamente il proprio figlio biologico ad altri adulti, generalmente senza figli, appartenenti alla stessa comunità, non necessariamente alla stessa rete familiare. 

Quella che oggi definiremmo genitorialità sociale era, di fatto, una forma di sostegno comunitario rintracciabile sull’isola fin dai primi anni del ventesimo secolo, prima ancora dunque dell’introduzione del nuovo diritto di famiglia (1975) e della previsione nel nostro ordinamento giuridico dell’affidamento familiare così come oggi lo conosciamo (L. 184/83 e successive modificazioni). Essa non era regolamentata da carte formali; se ne trova traccia solo nelle testimonianze di chi ha vissuto tale esperienza o negli atti testamentari in cui i fill’e anima venivano nominati eredi da chi li aveva accolti come figli propri.

«La volontarietà e l’accordo, la pre-conoscenza tra affidatari e bambino affidato, la continuità dei rapporti con i genitori biologici, erano alcune delle peculiarità del fill’e anima»

L’affidamento neI mutato contesto sociale e culturale 

L’affidamento familiare così come giuridicamente previsto ha subìto in Sardegna sorti altalenanti. Le condizioni sociali, culturali e giuridiche non sono oggi quelle dei primi decenni del novecento: si sono modificate le strutture familiari e il loro ciclo di vita, si sono affievolite le reti sociali e comunitarie, sono stati definiti normativamente compiti e doveri genitoriali, sono stati riconosciuti e sanciti, anche a livello internazionale, bisogni e diritti dei soggetti di minore età, sono stati approntati strumenti e procedure sempre più affinati per la loro protezione.

Negli ultimi anni si è assistito a un decremento delle famiglie disponibili all’affido e al ricorso a quest’ultimo come strumento residuale e tardivo tra i sostegni possibili ai nuclei d’origine in difficoltà. È quindi aumentato il numero dei minorenni inseriti in struttura e la durata media della loro permanenza in comunità[1].

L’affidamento familiare inteso come strumento preventivo e riparativo si configura, d’altronde, come un istituto complesso dal punto di vista relazionale e gestionale. L’indebolimento di reti parentali e comunitarie implica il ricorso a famiglie accoglienti esterne alla cerchia del nucleo d’origine e ciò impone l’attuazione di tutele maggiori e di un sistema di servizi in grado di garantirle. 

Quali condizioni per accompagnare processi di genitorialità sociale?

L’affidamento familiare continua ad essere, in sé, la forma forse più raffinata e ambiziosa di sostegno e affiancamento alla famiglia d’origine nell’esercizio delle proprie competenze e prerogative; ma affinché la solidarietà sociale si trasformi in aiuto concreto ed efficace, sono necessari modelli organizzativi e operativi congruenti e rigorosi, reti di sostegno formali stabili e continuative con compiti e funzioni definiti, personale altamente specializzato e dedicato[2].

Senza queste condizioni il sistema non è in grado di garantire diagnosi precoci sulla superabilità delle difficoltà genitoriali e familiari né adeguati sostegni alle famiglie d’origine, né sostegno alle famiglie affidatarie e al minore, né appropriate azioni di sensibilizzazione e informazione. Esistono ancor oggi molte persone sensibili alle difficoltà dei bambini e delle loro famiglie: ciò che spaventa è intraprendere cammini impegnativi senza la certezza di essere affiancati e sostenuti in questi percorsi.

Gran parte delle condizioni indispensabili per la realizzazione di affidamenti familiari efficaci richiedono una programmazione delle politiche sociali e per la famiglia coerenti e un investimento di risorse sul lungo periodo nel sistema della tutela minorile. È ciò che in Sardegna si sta tentando di costruire attraverso tavoli istituzionali di confronto in cui sono chiamate in causa tutte le istituzioni preposte.

Dalla tradizione alcune indicazioni metodologiche

Da un punto di vista metodologico, c’è un aspetto, nella tradizione culturale del Fill’e anima, che occorre valorizzare e che l’esperienza conferma essere spesso, anche oggi, determinante nel successo degli affidamenti familiari. Tanto più essi hanno origine nella rete delle conoscenze pregresse del minore, tanto più “affidarsi” non necessita di artifizi e costrizioni.

La volontarietà dell’affido diventa la chiave vincente per un legame soddisfacente e costruttivo per tutti. Il lavoro sociale di comunità che mira allo sviluppo relazionale in contesti di comunità si presenta come metodologia adatta a ricreare solidarietà intorno ai nuclei familiari, superare la concezione della famiglia come cellula isolata a cui sono affidati tutti i compiti di crescita dei figli, costruire reti di supporto basate sulla fiducia e reciprocità. Azioni che restituiscono alle comunità un ruolo centrale nella condivisione della responsabilità educativa dei bambini e che consentono di agire in modo preventivo di fronte ai disagi temporanei delle famiglie.


[1] Al 31.12.2018, secondo un’indagine effettuata dal Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Sardegna il numero dei minori in struttura era pari a 712 su una popolazione minorile di 230.488 unità, con una permanenza media in struttura di circa 4-5 anni.

[2] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Linee di indirizzo per l’affidamento familiare, 2012, par. 20.


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